Maltrattamenti ai danni della convivente: la capacità di reazione della donna non rende meno grave la condotta dell’uomo

Respinta la tesi secondo cui è necessario che la vittima sia succube, tra le mura domestiche, del proprio aguzzino per poter parlare di maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti ai danni della convivente: la capacità di reazione della donna non rende meno grave la condotta dell’uomo

Offese, minacce e violenze ai danni della convivente: la capacità di reazione della donna non può mettere in dubbio i maltrattamenti compiuti dall’uomo. Respinta la tesi secondo cui è necessario che la vittima sia succube, tra le mura domestiche, del proprio aguzzino per poter parlare di maltrattamenti in famiglia. I giudici chiariscono che la capacità di resistenza mostrata dalla persona offesa non può rendere meno gravi i comportamenti tenuti dal soggetto responsabile delle condotte maltrattanti. Dato obiettivo non in discussione, nel caso preso in esame dai giudici, è l’esistenza, tra l’uomo sotto processo e l’allora sua compagna, di una relazione interpersonale improntata a continue condotte offensive e denigratorie, che si sostanziavano nell’abituale aggressività verbale dell’uomo ai danni della convivente, come certificato dalla valenza offensiva e umiliante delle ingiurie dirette per otto mesi dall’uomo alla donna. In sostanza, l’uomo si è reso responsabile di condotte offensive e umilianti, commesse nei confronti della compagna e che sono state poste in essere anche alla presenza dei loro figli minori. I giudici ribadiscono che, Codice Penale alla mano, il reato di maltrattamenti in famiglia richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico-fisica, consistente nella sottoposizione ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita, e l’abitualità della condotta deve essere idonea a determinare uno stato di sofferenza e di umiliazione nella vittima, senza che, tuttavia, ciò debba necessariamente comportare la riduzione della stessa vittima in uno stato di sudditanza psicologica nei confronti del suo aguzzino. Di conseguenza, è del tutto irrilevante che la persona offesa dimostri una maggiore o minore capacità di resistenza, come pure il mantenimento di un’autonomia decisionale, posto che tali dati attengono essenzialmente ad un profilo strettamente soggettivo che, tuttavia, non inficiano l’idoneità della condotta illecita a determinare uno stato di sofferenza nella persona che la subisce abitualmente nel tempo. Tirando le somme, il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone l’accertamento di condotte oggettivamente lesive della sfera psico-fisica del convivente, a fronte delle quali il grado di sofferenza in concreto indotto non costituisce un elemento decisivo. (Sentenza 809 del 12 gennaio 2023 della Corte di Cassazione)

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