Mendicante ruba generi alimentari in un supermercato: il bottino corposo gli costa la condanna

Impossibile riconoscere lo stato di necessità, atteso che alle esigenze delle persone indigenti è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale

Mendicante ruba generi alimentari in un supermercato: il bottino corposo gli costa la condanna

Ricostruito facilmente l’episodio, i giudici ritengono sacrosanta la condanna dell’uomo - un mendicante senza fissa dimora - individuato come responsabile del ladrocinio. Alle obiezioni difensive, poi, i giudici replicano in modo secco, escludendo la configurabilità di un pericolo attuale di un danno grave alla persona; del requisito dell’assoluta necessità della condotta e di quello dell'inevitabilità del pericolo non volontariamente causato. Senza dimenticare, poi, la mancanza di proporzione tra fatto e pericolo, trattandosi, tra l'altro, di un ben consistente quantitativo di generi alimentari. In generale, comunque, l'asserita situazione di indigenza non è di per sé idonea, precisano i giudici, ad integrare la scriminante dello stato di necessità per difetto degli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo, atteso che alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale. Tirando le somme, lo stato di bisogno non può giustificare il mendicante che si trovi in ristrettezze economiche, alla luce della possibilità di ricorrere all'assistenza degli enti che la moderna organizzazione sociale ha predisposto per l'aiuto agli indigenti, possibilità che fa venir meno gli elementi dell'attualità e dell'inevitabilità del pericolo grave alla persona. Né la circostanza della destinazione del bene a soddisfare un bisogno alimentare può escludere la configurazione del furto, trattandosi pur sempre di un bene avente valore economico il cui impossessamento realizza un vero e proprio profitto laddove la destinazione al nutrimento si risolve nell'uso di cui l'autore dell'impossessamento fa del bene. (Sentenza 21900 del 22 maggio 2023 della Cassazione)

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