Accordo in sede di separazione: possibile disporre dei beni in comunione
Tuttavia, l’inderogabilità della disciplina della comunione legale dei beni relativa all’uguaglianza delle quote comporta la nullità dell’accordo che, al contrario, contempli una divisione dei beni in parti diseguali

A fronte di un accordo stipulato, al momento della separazione consensuale, tra ex coniugi al fine di disciplinare i profili relativi alle questioni patrimoniali insorte nella coppia, una volta sciolta la comunione legale con la separazione consensuale, rientra nella piena autonomia negoziale delle parti disciplinare gli aspetti economico-patrimoniali – estranei agli obblighi ex lege riguardanti la prole, in relazione ai quali l’autonomia delle parti contraenti incontra limiti – con l’accordo di separazione omologato. E in tale sede le parti possono liberamente disporre dei beni in comunione al fine di regolare i rapporti economici della coppia e possono prevedere una ripartizione del bene immobile in comunione legale per quote non egalitarie nell’ambito delle reciproche attribuzioni patrimoniali, in vista della successiva divisione, senza che ricorra alcuna ipotesi di nullità. Questo il punto fermo fissato dai giudici (ordinanza numero 2546 del 3 febbraio 2025 della Cassazione), chiamati a prendere in esame il contenzioso sorto tra due coniugi che, dopo dieci anni di matrimonio, avevano acquistato un immobile, ricaduto nel regime di comunione legale, divenuto poi pomo della discordia una volta ufficializzata la cessazione degli effetti civili delle nozze. Nello specifico, l’uomo ha chiesto la divisione dell’immobile oppure la vendita con assegnazione paritaria della somma ricavata, mentre la donna ha dedotto che la comunione non era in parti uguali, atteso che la quota assegnata a lei era pari al 71 per cento, come da accordo riportato nel verbale di separazione personale dei coniugi, omologato dal Tribunale. Per i giudici di merito, però, va sancita la nullità dell’accordo, anche perché l’inderogabilità della disciplina della comunione legale dei beni relativa all’uguaglianza delle quote, così come espressamente sancita dal Codice Civile, comporta la nullità dell’accordo che, al contrario, contempli una divisione dei beni in parti diseguali. Questa visione viene però smentita dai magistrati di Cassazione, i quali, alla luce dell’’assetto normativo vigente, definiscono la comunione legale un istituto la cui caratteristica essenziale consiste nell’attribuzione ex lege in proprietà comune dei coniugi dei beni indicati dal Codice Civile, come, ad esempio, gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali, e che è altresì caratterizzato dall’affidamento alla volontà comune di entrambi i coniugi di qualunque atto dispositivo dei beni facenti parte della comunione, con la previsione, solo in caso di contrasto tra le parti, di un intervento autorizzatorio del giudice nell’interesse della famiglia. Di notevole rilievo, ai fini della configurazione dell’istituto, è il sistema delle modificazioni convenzionali dei regimi patrimoniali dei coniugi che, secondo la vigente normativa, possono essere liberamente cambiati, passando dalla comunione legale alla separazione dei beni, ovvero ad una comunione legale pattiziamente modificata nei limiti consentiti dal Codice Civile. Per tali mutamenti è richiesto unicamente l’atto pubblico, mentre solo per l’opponibilità ai terzi è necessaria l’annotazione in margine all’atto di matrimonio e, nei casi previsti dalla legge, la trascrizione. La comunione legale tra coniugi, in quanto finalizzata alla tutela della famiglia piuttosto che della proprietà individuale, si differenzia da quella ordinaria in quanto costituisce una comunione senza quote, nella quale essi sono entrambi solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni che la compongono e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei, sicché, fintantoché è in essere, permane il diritto del coniuge a non entrare in rapporti di comunione con soggetti ad essa estranei, mentre una volta sciolta, venendo meno le necessità funzionali originarie, ciascuno degli ex coniugi può cedere ad ogni titolo la propria quota, ossia la corrispondente misura dei suoi diritti verso l’altro, senza che si ponga un problema di radicale invalidità dell’atto di trasferimento.