Condannato per apologia del fascismo lo striscione “Mussolini non si tocca”

La Cassazione ha confermato la condanna dell’imputato per lo striscione apposto in occasione della presentazione di un libro

Condannato per apologia del fascismo lo striscione “Mussolini non si tocca”

In occasione della presentazione di un libro, il leader di un’associazione di estrema destra definitasi ‘Partito fascista repubblicano’, provvede a far esporre due striscioni, uno contro l’autore del libro e l’altro, posizionato sulla facciata del Comune, con la scritta “Mussolini non si tocca”.

L’uomo viene accusato del reato di apologia del fascismo ma i giudici del Tribunale ritengono l’accusa priva di fondamento. Di parere opposto sono, invece, i giudici di secondo grado che condannano l’imputato per aver «esaltato, principi, fatti, o, comunque, metodi, propri del fascismo» e così ha tenuto una condotta «idonea a creare il pericolo di ricostituzione del partito fascista».

In sede di ricorso in Cassazione, l’avvocato difensore prova a ridimensionare l’episodio, sottolineando che «non è stata realizzata una manifestazione pubblica; non sono stati rilevati comportamenti aggressivi, minacciosi o violenti; gli striscioni ed i volantini sono stati infissi in orario notturno e rimossi dopo poco tempo dalla Polizia municipale» e che «le condotte sono state rivolte ad una comunità ristretta e non si sono concretizzate in manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, come ad esempio il ‘saluto romano’».

La sentenza della Cassazione richiama in primo luogo due punti fermi. In primis, il fatto che la Costituzione «vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista, rendendo inapplicabile, nei confronti dei movimenti fascisti, la libertà di associazione» e che la legge Scelba «ha vietato la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Fascista ed ha previsto, tra l’altro, il reato di apologia di fascismo». In particolare, la norma «punisce sia le condotte di propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, sia quelle che si sostanziano nella pubblica esaltazione di principi, fatti o metodi del fascismo, oppure delle sue finalità antidemocratiche». Inevitabile il riferimento alle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, indicate «nella minaccia o nell’uso della violenza quale metodo di lotta politica, nella propugnazione della soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o nella denigrazione della democrazia, delle sue istituzioni e dei valori della ‘Resistenza’, ovvero rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del partito fascista o compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista».

In poche parole, la priorità è la tutela delle istituzioni democratiche, anche a costo di limitare la libertà di manifestazione del pensiero.

Tornando alla vicenda, viene sottolineato che «ai fini dell’integrazione del pericolo di ricostituzione del partito fascista» non sono richiesti «comportamenti aggressivi, minacciosi, violenti». A rendere più grave la posizione del leader dell’associazione, poi, la diffusività delle condotte da lui tenute e «la loro destinazione ad un numero elevato di consociati», così come «il tenore inequivoco delle espressioni utilizzate, immediatamente evocative dell’apparato esteriore dell’ideologia fascista, oggettivamente funzionali a generare il pericolo di ricostituzione del partito fascista, sia pure sotto un particolare profilo, ovvero quello dell’idoneità a provocare nuove adesioni e consensi».

In conclusione, i giudici di legittimità confermano la condanna (Cass. pen., sez. I, dep. 27 giugno 2024, n. 25452).

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