È revenge porn anche senza contatto fisico
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 10692 depositata il 14 marzo 2024 nel confermare la condanna di un uomo per violenza sessuale e revenge porn.

La vicenda nasce a Palermo dove la Corte d'appello confermava la sentenza emessa in primo grado con rito abbreviato, in cui l’imputato era stato condannato a un anno e quattro mesi di reclusione per i crimini di violenza sessuale e diffusione di immagini ottenute illegalmente, riguardanti la sfera privata e intima, come definito nell'articolo 615-bis del codice penale.
La difesa ha però proposto ricorso in Cassazione affermando che i giudici di merito non avevano accertato l’effettiva riconducibilità a lui del profilo Facebook utilizzato per commettere i reati. Inoltre, era stato erroneamente affermato che la persona offesa lo aveva riconosciuto per averlo incontrato di persona: ciò non era invece mai accaduto e il riconoscimento si fondava unicamente sull'inserimento della foto dell'imputato, da altri effettuata, sul profilo social aperto a suo nome.
Il ricorso non ha però successo.
I motivi ripropongono la tesi già sollevata in appello e disattesa con adeguata motivazione da parte dei giudici palermitani. Infatti, la Corte di cassazione non può rileggere gli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata né adottare nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili.
La sentenza impugnata ha infatti ritenuto correttamente che l'autore dei reati fosse l'imputato, basandosi sul fatto che il profilo Facebook utilizzato era collegato a lui e alla sua fotografia, associato al numero di telefono intestato alla madre con cui conviveva. La vittima, inoltre, riconobbe l'uomo sia per la foto del profilo che per averlo visto di persona. È stata la madre della ragazza a testimoniare il fatto che la figlia aveva intrattenuto videochiamate con l'autore delle condotte illecite e per questo era in grado di riconoscerlo.
Infine, ricorda la Suprema Corte, il reato contestato può essere integrato anche per via telematica, quando il reo, utilizzando strumenti per la comunicazione a distanza quali il telefono, la videochiamata, la chat, costringe la persona offesa a compiere atti sessuali pur se questi non comportino alcun contatto fisico con l’imputato.