PMA e detenzione: gli arresti domiciliari possono sostituire il carcere?
Una detenuta, indagata per la partecipazione a un clan camorristico, chiede di poter sostituire la misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari volendo ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. La Suprema Corte si pronuncia a riguardo richiamando anche le norme che regolano la custodia cautelare in carcere.

Venendo ai fatti, il Tribunale, in sede cautelare, non aveva accolto l’appello della donna contro il provvedimento del GUP che respingeva la richiesta di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari. Ricorre la donna in Cassazione sostenendo la violazione dell’art. 2 della Costituzione, essendo - secondo la sua difesa - inviolabile il diritto di ricorrere alla procreazione assistita dal momento che non può procreare naturalmente così come provato dai certificati medici e la PMA «è effettuabile solo in regime di arresti domiciliari con autorizzazione a recarsi presso il centro fertilità assistita e non in altro luogo di cura dell’Amministrazione Penitenziaria, circostanza che renderebbe incompatibile la massima misura cautelare». Per la Cassazione il ricorso è infondato poiché anche se è vero che il diritto alla procreazione e alla maternità rientrano tra quelli costituzionalmente garantiti, l’estensione di un diritto costituzionalmente garantito «non è identica per il soggetto in stato di libertà e quello in stato di detenzione». Le norme che regolano la custodia cautelare in carcere, infatti, non prevedono tutela diretta al diritto alla procreazione, limitandosi a stabilire che «non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere se la persona è affetta da malattia particolarmente grave […]» e dunque la volontà di accedere alla PMA non rientra nel concetto di malattia. In conclusione, essendo la donna indagata per il reato di partecipazione a un clan camorristico ed essendoci in questo caso gravi indizi di colpevolezza, l’unica misura adeguata per legge è quella della custodia in carcere. Conclude la Suprema Corte che nel caso in esame, il Tribunale ha sottolineato come le esigenze di tutela della collettività dovessero prevalere «posto che l’indagata era risultata ricoprire un “ruolo nevralgico” all’interno di un importante sodalizio criminale di tipo camorristico […]». (Cass. pen., sez. II., ud. 13 ottobre 2023 (dep. 6 febbraio 2024), n. 5182)